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OLTRE L’OSTACOLO

(Come se leggesse Mino Caprio che doppia John Turturro)

 

C’è questa finestra a piano terra.

Well: larga, doppi vetri, sbarre di ferro battuto brunito, zanzariera calata e tende a vetro.

Tutto il completo insomma, che non ci si crede quasi di poterci guardare attraverso da tante che sono le barriere a frapporsi fra il fuori e il dentro.

Ma non è finita. Oltre la finestra tutta bardata come dicevo, c’è un cortile.

Sebbene, dalla seggiola sulla quale siedo par fare colazione se ne scorga solo una striscia.

Una porzione di tavola apparecchiata per uno: caffè, latte, porridge, qualche fetta di pane tostato e tutto il resto. Il mio posto per la colazione apparecchiato con una bella tovaglietta a quadri, a volte rossi a volte verdi, il blu non mi piace.

You know?

La finestra bardata e la porzione di cortile, ok?

Ci siamo!

A delimitare il cortile che fa parte della porzione di casa dove vivo a piano terra, c’è un muretto basso di cemento grigio un po’ scrostato, consumato dall’edera che se ne mangia via un pezzetto ogni anno, dei ciottoli si staccano e io quando esco per buttare la spazzatura, li raccolgo e li allineo sulla sommità del muretto proprio dove si aggancia la rete verde scuro.

Ne ho collezionati tanti che c’è venuto un bel decoro perfettamente allineato.

Stavo quasi pensando, un giorno, di incollare quei cazzo di sassetti bianchi e lucidi così non devo più raccattarli dall’aiuola tutta verde smeraldo, che sembrano funghi o uova di scricciolo o ghiaietto fatto saltare dal giardiniere mentre raccoglie le foglie secche dal vialetto.

Invece sono le parti di un muretto intero, gli atomi di una molecola fatta di agglomerati di cemento…

Well!

Sopra il muretto, dicevo, una rete termosaldata verde protegge me dal giardino del vicino, o viceversa, chissà.

Al mio vicino non danno fastidio i sassolini bianchi che cadono dal mio muretto sul suo pratino verde smeraldo che non supera mai i tre centimetri, scommetto che ha anche un calibro per misurare lo spessore dei fili d’erba: niente fiori, ippocastano, un acero, una rosa tutto in bell’ordine.

You know?

Comunque io per fortuna dalla mia sedia della colazione, non li vedo mai.

Well.

Quindi c’è la mia porzione di tavola apparecchiata con la mia quota di colazione, poi la finestra tutta bardata come dicevo, il pezzo di cortile, il muretto sbrecciato, i cazzo di sassetti bianchi, la rete termosaldata verde a rombi, e l’angolo del giardino del vicino: con l’acero, l’ippocastano e la rosa e l’erba corta e tutto il resto.

La rosa, del vicino, è bassa e ben curata, potata di fresco. Dietro la rosa si distingue bene un altro muretto basso, uguale al mio ma senza sbrecciature e sassetti e roba del genere, che l’edera il vicino non la fa nemmeno avvicinare a quel suo bel muretto nuovo, bello grigio uniforme di cemento intonso.

Forse dentro, amalgamati bene, ci saranno dei cazzo di sassetti bianchi, o forse li ha ordinate appositamente grigi come tutto il resto. Atomi ben ordinati che non seguono l’entropia dell’universo dei muretti. Comunque non si vedono perché lui, l’edera la uccide sul nascere.

Well.

Sopra il muretto un’altra rete termosaldata verde bella tirata, luccicante di gocce di rugiada del mattino. Al di là della rete del vicino una catasta, più una accozzaglia direi, di tronchi di: acero, olmo, quercia, ciliegi, prugnoli, cresciuti a casaccio dalla distrazione di madre natura, che lei i suoi schemi non ce li fa mai capire nemmeno quando li ha, figuriamoci se ha per complice l’incuria di un fattore pigro.

Probabilmente madre natura e il fattore se la intendono meglio di quanto io possa mai arrivare a comprendere.

Insomma c’è questo boschetto di alberelli frondosi e ondulati al punto che sembra che il vento ci venga a riposare anche nei giorni di bonaccia.

Perciò: la mia porzione di tavola apparecchiata per la colazione per uno, la finestra bardata come dicevo, il muretto, la rete, il giardino, la rosa potata di fresco, il boschetto spettinato e il ciliegio che sale quasi a voler prendere il volo e faticando a staccarsi da terra forma un porticato di rami.

In fondo a quel tunnel di chiome ritorte si intravede una porzione di incolto con l’avena nodosa talmente alta che se un bambino dovesse andarci a giocare in mezzo non lo si vedrebbe più. Anche lei ondeggia, l’avena, perennemente.

E poi gramigna, tarassaco, piantaggine…

You know?

Nello spigolo esterno, sulla sinistra del mio punto di osservazione, l’intreccio appena percettibile di un’altra rete termosaldata, ma di quelle che arrivano fino a terra alte e senza muretto, che al fattore i muretti forse non piacciono, oppure è troppo pigro per tenere a bada l’edera e quei cazzo di sassetti bianchi danno ai nervi anche a lui. Insomma piantata lì, alla meglio a confine tra l’incolto e una strada.

Come se l’asfalto non fosse un confine sufficiente per madre natura…

you know?

Quindi: ho il mio bel piatto di pancake o di porridge fumante, o la mia ciotola di cereali ( per lo più mais), il caffè, il latte, la porzione di tavola, la finestra bardata come vi dicevo, la striscia di cortile, il giardino del vicino, la rosa, il ciliegio, l’avena…

Well.

Laggiù uno spiraglio di vuoto incorniciato da uno, due, tre mondi che non sono il mio, lanciato come una freccia scoccata da Ulisse tra le scuri nel palazzo di Itaca, il mio sguardo intercetta; te…

You know?

Tu passi, ogni mattina con la tua famigliare nera, una berlina non troppo dotata.

Sei sempre piuttosto puntuale, minuto più minuto meno, non che io guardi l’orologio, non ne ho bisogno perché quando passi io sono sempre al primo o al secondo sorso di caffè al massimo, mai al terzo.

Ed io col caffè sono parecchio puntuale, in generale sono molto preciso è una mia , come si chiama? Caratteristica, perciò…

Tu passi senza fretta, appari e scompari in una frazione di secondo in quello spiraglio di vuoto, come un fotogramma di scarto che un montatore poco attento ha dimenticato di tagliare, o ha deciso arbitrariamente di tenere poiché, non toglie e non aggiunge nulla al resto del film.

Tu per il resto del mondo, per gli altri mondi che non sono il mio: sei un fotogramma neutro!

Passi dicevo, e vai per la tua strada a recitare la tua parte nel tuo, o in chissà quali film della vita altrui. Mentre io resto seduto alla mia porzione di tavola al di là di quella sequenza interminabile di barriere: la porzione di tavola, la finestra bardata come ti dicevo, la striscia di cortile, il giardino del vicino, la rosa, il ciliegio, l’avena…

you know!!

E quando sei passata, inutile fotogramma, posso finalmente tornare a battere le palpebre, che altrimenti tengo forzosamente sbarrate tra il primo e il secondo sorso di caffè.

Se le chiudessi, se il vapore dalla tazza mi costringesse a chiuderle, rischierei di perderti in quel mare di diaframmi e cose in movimento e uccelli che vagano per bere la rugiada o acchiappare gli insetti mattutini, e luce del mattino che fa luccicare i doppi vetri umidi.

Per questo resto immobile, sospeso, non respiro nemmeno, mai! Tra il primo e il secondo sorso, solo così posso essere sicuro che ci sei, che sei passata davvero. Che non ho preso un abbaglio!

A volte penso che se un giorno tardassi qualche minuto, o se per qualsiasi motivo decidessi di cambiare percorso, o comprassi una berlina blu ed io in alcun modo fossi in grado di riconoscerti e sapere che tu eri lì in quello spiraglio, in quel fotogramma insignificante, credo che quello sarebbe il giorno in cui potrei finalmente morire o andare oltre, buttarmi al di là dell’ostacolo magari, finalmente, finalmente nascere!