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Agorafobia

La vita è rotonda come il mondo. Un giorno ci rincontreremo.”. Disse accomiatandosi da noi, in un pomeriggio di primavera, l’ingegnere meccanico Cileno autista improvvisato e guida di Roma per un giorno. Aveva l’accento di Sepulveda e un po’ della saggezza endemica di chi è migrante anche in casa sua.

Che la vita è “rotonda” e tutto ritorna l’ho imparato nel tempo, ma mai è stato più vero che in questi ultimi mesi. C’è stato un tempo, che pareva relegato ad una dimensione alternativa, in cui soffrivo di disturbi d’ansia. Non ne conoscevo il nome, non sapevo in realtà nemmeno di averli. Convivevo con questa condizione di isolamento totale dal mondo, fatta eccezione per le rare volte in cui frequentavo la scuola.

Il mondo era fatto di percorsi prestabiliti che evitassero meticolosamente l’incidente dell’incontro non necessario. Il panettiere era necessario, la signora che uscita dal panettiere e tentava di sorridere alla mia chioma perennemente abbassata sul viso, no.

La carezza al gatto del mugnaio spalmato sul muricciolo sul retro del mio palazzo era necessario, il buon giorno alle scarpe della vicina intercettata per sbaglio all’angolo del vicolo, no.

Io non mi addentravo nel mondo, non quello vero, e il mondo era bandito da casa mia. I pochi compagni che ancora facevano un tentativo di salire le tre rampe di scale e suonavano al mio campanello, forse mi sentivano respirare dall’altra parte dello spioncino, dove restavo incollata immobile con il cuore in gola sperando che finisse tutto al più presto.

Quando M. Se ne andò per non tornare mai più a suonare a quella porta, mi rimase dentro un senso di sollievo misto alla sensazione tagliente di aver fatto del male per la prima volta a qualcuno che non fossi io. M. era stata la mia migliore amica per tutta l’infanzia.

Di tanto in tanto però il mondo pareva volermi, mi chiamava prepotente e perentorio. Non ammetteva repliche. Lo faceva dall’alto dei sentieri che accoglievano il mio silenzio, o dal profondo del mare tiepido dell’alba, dove solo mio padre riusciva a portarmi. Io lo seguivo più per paura che per stupore. E lo faceva dalle pagine di quaderni che scarabocchiavo continuamente seduta sui gradini al sole. Lì avevo la mia finestra sulla vita.

Fu in un pomeriggio d’estate che passò C. con la sua “Graziella” arancione, veniva da fuori paese, e lei alla vita invece andava incontro con tenacia e voluttà. Sempre pedalando con forza, sempre di prescia. La conoscevo da sempre, e mi piaceva vederla passare, perché appunto passava e non mi vedeva. Ed io ero testimone dei suoi sorrisi, dei suoi capelli castani scompigliati, delle sue guance rosse.

Io me ne stavo a testa in giù asciugando i capelli al sole, e la sentii quando svoltò dal viale per imboccare la mia via, riconoscevo il rumore della sua catena che aveva un dente che saltava ogni due pedalate. Quando si sta molto in silenzio si fa caso a cose minuscole. Aprii gli occhi e sbirciai la strada da dietro la tenda delle ciocche umide.

Quando si fermò mi prese un colpo. Non feci nulla non mi scomposi di un millimetro, alzai solo molto lentamente la musica del wolkman. Non fu sufficiente perché la sentii lo stesso. La vita, tutta contenuta in quella frase, tutta concentrata in quella voce con la “r” bellissima.

– Sei tu vero? mi chiese con cautela. Sapeva chi ero ma voleva che lo sapessi anch’io, credo. E fu allora che accadde l’inatteso. La cassetta si ammutolì, la musica che mi proteggeva dalle sue parole era finita. Ed io mi sentii rispondere: – Sì

Per qualche istante feci entrare il mondo nella mia vita assieme alla sua voce. E in qualche modo ebbi la certezza che esso avrebbe preteso che ricambiassi la cortesia. Perciò il Sabato successivo mi ritrovai nel cortile della materna in mezzo a tavole imbandite, coetanei sorridenti e indaffarati e un unico enorme mostro pluricefalo che mi diceva “ciao” ad ogni piè sospinto. Il cielo e il prato erano un unico miscuglio di sole e nuvole e margherite voci facce odori. Tutto girava, e si allargava a dismisura.

Finalmente una nebbia protettiva mi avvolse, ottundendo tutto, calò salvifica attorno alla panchina dove mi ero appollaiata per torturare le mie ciocche e trovare la via di fuga più veloce. Proprio mentre elaboravo il piano perfetto per dileguarmi dal girone infernale dell’accoglienza, il mondo tornò da me, pareva essersi accorto dei miei piani, e protese una mano abbronzata e fermissima verso di me. Esitai qualche secondo, il cuore mi scoppiava nella testa, il viso prese fuoco e la schiena si impregnò di uno stillicidio di puro terrore. Alzai gli occhi, per distrazione o perché non avevo altra scelta e inciampai in quelli di A. Colmi del sorriso che sovrastavano.

Una mano tesa e un sorriso sincero. Fu tutto quello di cui avevo bisogno. L’arma definitiva che il mondo adoperò per soverchiare tutte le mie credenze, le mie inutili e malate protezioni. Fu l’apocalisse*.

A distanza di più di trentacinque anni ho potuto dare un nome alle cose ed ora le posso riconoscere. Ho potuto vedere nebbie dissolversi e tornare ciclicamente, con maggiore o minore intensità. Ho fatto sforzi enormi per aprire quelle porte e fare entrare il mondo, e sforzi ancora più grandi per uscire di casa ogni giorno, anche quando la nebbia mi sembrava l’unico posto possibile.

Lo scorso anno è successa una cosa. Tutti la sanno. Una cosa che ha sdoganato la nebbia, che l’ha legittimata ad avvolgere di nuovo ogni cosa. La vita è rotonda diceva Pablo, e questa volta ha fatto il giro completo. Mi ha riportata con una naturalezza che non le riconoscevo possibile, al punto di partenza. E di nuovo è stata l’apocalisse. Ma in involuzione.

Per fortuna ci sono i social”, per chi è passato dall’agorafobia, o da vari disturbi d’ansia, non funziona. O meglio funziona fin troppo bene, poiché alla nebbia si sostituisce un pianerottolo virtuale dove ci sono percorsi prestabiliti. Non ci sono scossoni, nemmeno l’imprevisto di incontrare la cliente del fornaio o la vicina all’angolo del vicolo. Il mondo ha preteso che io ci fossi in qualche modo, mi ha blandita e fatto promesse, ed io ho fatto promesse a lui, nessuno dei due le ha mantenute tutte, ma inciampando sempre in buona fede.

Fino a ieri. Ieri il mondo mi ha tradita, e lo ha fatto nel modo più subdolo, sbattendomi la porta in faccia. Vanificando ogni sforzo, anzi rendendo ciò che per me era male, ciò contro cui ho combattuto tutto il tempo, qualcosa di auspicabile per tutti.

Oggi vago confusa nei meandri di questo nuovo labirinto, vorrei sforzarmi di non tornare dietro quello spioncino ad osservare amici che non torneranno mai più a bussare alla mia porta, vorrei sforzarmi di rimanere nel mondo, un passo alla volta come sempre, un po’ per voglia e un po’ per dovere, avendo sempre negli occhi quella mano tesa e quel sorriso. Ma davvero, davvero, non so dove andare.

 

*AGORAFOBIA : proviene dal greco “αγορά” (piazza) e “φοβία” (paura): “paura della piazza”, ovvero degli spazi aperti e/o affollati. L’agorafobia fu originariamente descritta da Westphal (1871) come – letteralmente paura delle piazze- e includeva la paura di lasciare la casa, di rimanere soli per la strada, in piazza oppure la paura di viaggiare in treno, auto o automobile. Nella cultura popolare il termine sembra essere usato per indicare una generica paura di uscire fuori casa, tra i luoghi generalmente più citati in relazione all’agorafobia vi è anche il supermercato.

Spesso definita come fobia degli spazi aperti, in cui non solo si teme la folla, ma gli agorafobici possono avere il timore del giudizio degli altri in relazione allo stare male in pubblico oppure temono di stare male in situazioni o luoghi in cui non potrebbero essere soccorsi o da cui non possono fuggire; di conseguenza, si attivano meccanismi di evitamento delle situazioni ansiogene al fine di escludere la possibilità dell’insorgenza del panico. (fonte: STATE of MINDE il giornale delle scienze psicologiche)

 

*APOCALISSE : dal greco apocalypsis rivelazione, composto di apo separazione e kalyptein nascondere.

La rivelazione suprema, in religione, è la rivelazione escatologica, che profetizza il destino ultimo dell’uomo e del mondo. un gettar via ciò che copre, un togliere il velo, letteralmente scoperta o disvelamento. E solitamente questo destino ultimo non è proprio tranquillissimo: la fine del mondo viene sempre dipinta come un evento traumatico, catastrofico.