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il peso effimero

Ci sono fatti di cronaca che paiono toccarci da vicino. Come fossero il concretizzarsi di pensieri striscianti che per pochissimi, inquantificabili momenti si sono affacciati alla nostra coscienza.

Li abbiamo ricacciati nell’ombra, rimossi, negati. Ci siamo sentiti in colpa per il solo fatto di aver dato loro poche molecole dell’ossigeno che stavamo respirando mentre essi ci sfioravano il cuore in un momento di sconforto qualsiasi. Lo sconforto non è moda del nuovo ventennio, votato al pragmatismo, finalizzato al produrre concretezza in ogni piega dell’esistenza, dal moderno metodo scientifico alla vita quotidiana, sempre sul pezzo, sempre coi famosi “piedi per terra”.

In contrapposizione a questo modus vivendi esistono bacini virtuali, dove l’illusione crea evasione a tempo determinato, a costi accessibili. Pratiche legalizzate di distrazione che ci rendono tutti più o meno sorridenti, tutti più o meno uguali, tutti più o meno contenti. Quindi se nonostante “tutto” non siamo felici si innesca un meccanismo perverso. Un misto di senso di colpa e disorientamento che rende la pelle sottile al punto che sentiamo tutto. Un capello che cadendo ci sfiora una spalla, la leggera presenza di un’effimera (Ephemera danica), sulla nostra mano. Un unico innesco, una più o meno banale scintilla e siamo nel loop depressivo.

Se lo sconforto è fuori moda, la depressione è il peccato capitale della nuova religione. Tabù per eccellenza, marchio di infamia e inaspettatamente business miliardario per la società dei consumi. Ma, per molti di noi, per il senso della vita stessa, atto di cieca e pervicace fiducia in quanto movimento di creazione continua, la realtà presentata pragmaticamente è un limite soffocante una prigione di concretezza che si stringe attorno ad ogni respiro. Ogni passo verso il giorno successivo diventa impossibile, la gravità moltiplica la sua forza peso, non siamo in grado di trovare nella realtà un motivo per continuare a camminare, a prenderci la responsabilità del nostro futuro, figurarsi riuscire ad immaginare quello di un figlio.

Negli ultimi anni, in un crescendo senza fine e mai come in questi mesi, la capacità di immaginare è stata dilavata uno strato alla volta. Temporali di stagione, tempeste, uragani o veri e propri tsunami come il nuovo virus, si sono portati via l’humus della vita; la creatività. Nessuno è nato senza, dalla primissima trasformazione in zigote e forse da prima ancora, tutta la nostra esistenza è un atto di perenne creatività. Tendiamo naturalmente al futuro mentre agiamo, tendiamo ad espanderci, a crescere, ad apprendere ad evolvere in qualcosa di nuovo ogni momento. Anche quando siamo distratti o mentre dormiamo. Mai quando abbiamo paura.

La paura è la più potente strategia di sopravvivenza, utilissima nel passato remoto della nostra specie, quando la prudenza era sopravvivenza, ma che portata in eredità e debitamente adattata ai nostri giorni è diventata la vera arma letale. La prigione nella quale ci chiudiamo da soli, non ha porte, botole, finestre, luce. Ad essa sacrifichiamo tutto, tutto il nostro retaggio naturale, tutto il nostro essere, la nostra anima e talvolta, quando nel conflitto tra istinto di sopravvivenza e paura vince quest’ultima, la nostra vita. Soccombiamo pensando che l’unica via d’uscita sia lasciare il nostro corpo, e raramente ma inesorabilmente pensiamo di fare il bene di chi amiamo di più al mondo portandolo con noi. Scavalchiamo l’ostacolo lentamente nel punto esatto da dove non ci sarà più ritorno.

Nei mesi scorsi, tra coloro in cui non ha prevalso la rimozione del presente, quanti si saranno ritrovati a guardare i propri cari col terrore nel cuore. Quanti avranno anche solo per un istante pensando a quell’unica possibile via di fuga con sconcertante sollievo.

In qualche modo, la chiave della prigione è già nelle nostre mani. Non prevede l’annientamento, bensì qualcosa che “gli artisti” conoscono per indole, la trascendenza. Trascendere la realtà non è distrarsi da essa, non è negarla, ma atto di creazione potente. Immaginare il futuro, come luogo in cui è piacevole volersi recare, fare progetti, imparare, crescere malgrado le circostanze, “fiorire nonostante”*. Ciò che ci tiene coesi, da quel primissimo atto di unione creativa, trascende ciò che conosciamo. Affetti da una perniciosa forma di amnesia, ci ostiniamo a pensare che “Se uno ha imparato a contare fino a sette vuol mica dire che l’otto non possa esserci”*.

* Silvia Longo (post)

* Lorenzo Cherubini (temporale)